Diary for EUTIKIA ... festina lente


Port Elizabeth e Addo Park, 7-12 febbraio 2017.

2017-02-12

~~Dal bel finestrone del nostro piccolo, ma spazioso e ben curato, randawell, una capanna con solide pareti di fango, lo sguardo spazia su un vasto prato verde. Ovunque, ma in bel ordine, verdeggianti alberi di limone. Diresti d’ esser in Sicilia, se non fosse che a due passi si estende l’Addo National Park, uno dei  più vasti del Sud Africa.
Tutto iniziò nel 1740 con l’arrivo dei primi boeri dall’Olanda che , con mandrie, Bibbia e due fucili per famiglia, occuparono queste aree contendendole ai nativi,  rifiutandosi pure di convivere con gli inglesi che si stavano via via insediando lungo la costa.
Ovviamente fu sparso molto sangue d’ambo le parti e gli Xhosa locali dovettero alla fine soccombere.
Nel 1814 gruppi misti di agricoltori inglesi e boeri, ormai chiamati Afrikaners, promossero la coltivazione intensiva di queste vallate, per tutte,  la Sundays River Valley. Grazie a nuovi sistemi d’irrigazione, a seguito di non poche disavventure e fallimenti, fu possibile, alla fine dell’800, estendere vastissime piantagioni di limoni ed arance. E fu così che quest’area è diventata la maggior produttrice di limoni del Sud Africa. Limoni che ora trovi in tutti i super mercati d’Oriente e non solo.
L’iniziativa non piacque punto agli elefanti che assai numerosi razzolavano su queste basse colline. O meglio, erano talmente ghiotti di arance che ne saccheggiavano piantagioni intere. Naturalmente fecero una brutta fine, al punto che ne rimasero, nel 1931, solo undici. Ma i tempi, anche qui, cambiarono velocemente le cose, il turismo nascente e avventuroso suggerì di istituire l’ennesima riserva naturale. E così, finalmente, nel 1950 fu istituita quest’area protetta dedicata in prevalenza agli elefanti, anche perché nel frattempo erano state adottate nuove tecniche per proteggere le coltivazioni.
E veniamo all’oggi, si fa per dire. Nel 1989, un tale Cris Pickels, con la moglie Linda, pure lui, come i suoi antenati Afrikans, annoiato dalla città decise di trasferirsi qui per aprire una farmer di limoni. Gli ettari di proprietà erano però troppo pochi per campare e così pensò di affittare due stanze ai turisti in visita al Parco, già in forte sviluppo. La vide giusta, e in pochi anni costruì con le sue mani  questa, ed altre capanne di fango che incorniciano questo bel prato fiorito e profumato.
E così percorrendo i dieci chilometri, dal lodge all’ Addo Park, dal finestrino vedi verdeggianti distese, squadrate e ben coltivate, di limoneti. Accanto i contry villages, come li chiamano,  della popolazione di colore che lavora nelle piantagioni e nel Parco. Sono di fatto ghetti ben organizzati con micro casette singole, tutte ben in fila. Non c’è un centro, solo uno stradone con un negozio e una pompa di benzina.
Quando arrivi al gate  del Parco i controlli sono severi e, poi, finalmente puoi scorazzare all’interno con la tua vettura presa a noleggio, come del resto fanno quasi tutti. Con un primo giro di qualche ora ti fai un’idea e se sei fortunato fai anche qualche bel incontro ravvicinato, poi è meglio affidarsi alle guide locali. La nostra, un tipo assai vispo, nel giro al tramonto, ci ha portato su e giù per colline e vallate con l’obiettivo più atteso, sempre quello, di trovare il Leone. Con il sole che ormai stava infuocando l’orizzonte e con le speranze sotto i copertoni della Land Rover, il nostro si ferma di botto. E indica un basso bush a più di cento metri. Zac ! Tutti con gli occhi fuori dalle orbite per vedere ciò che solo lui aveva visto. A stento e con il tele al massimo scorgo un bel maschio sdraiato nella siesta più profonda. Ma è decisamente lontano per una foto decente e per poter dire, a chi non è venuto, “ Abbiamo visto un bel leone! E tu ?”  Restiamo tutti con un palmo di naso.
Il ranger ci guarda e non fa molta fatica a comprendere la delusione del gruppetto. Borbotta qualcosa. Capisco solo che lo fa, ma che è meglio che altri non sappiano: ingrana la prima ed entra lentamente nel bush lasciando lo sterrato. Si porta a venti metri e… con l’obiettivo posso contare gli sbafizzi del leone.
Dicono che nessuno sia mai uscito dal Parco senza mai aver visto almeno un elefante.
Da undici ora sono più di seicento e sono l’attrazione più comune, ma sempre straordinaria, del Parco. Hanno un grande spirito di comunità e ogni gruppo segue la propria matriarca, facilmente riconoscibile per l’imponente mole. Sopportano placidi ogni più intrusiva presenza, al massimo ti offrono subito le terga e il codino. Unica avvertenza: non sbucciare in loro presenza un’arancia, ne ricordano benissimo il profumo e ne vanno pazzi, potrebbero diventare pericolosi !